Ba' i Ciccia u muzzunaro e il mito della "camicia rossa"
Mentre il Generale Garibaldi era ancora impegnato in Sicilia, un suo leale seguace di origini calabresi, il patriota Antonino Plutino, che aveva partecipato attivamente alla spedizione dei Mille preparava, assieme ad altri cospiratori, il terreno nella parte estrema della penisola, organizzando delle bande di insorti chiamati i “Cacciatori d’Aspromonte”.
Anche al di qua dello Stretto non mancheranno quindi numerosi volontari alla causa rivoluzionaria che andranno ad ingrossare, come un fiume in piena, l’esercito dei “Mille” con la maggior parte di queste nuove reclute inquadrate all’interno di una vera e propria struttura militare.
Tra coloro che considereranno seriamente l’idea di arruolarsi in questo battaglione, il cui compito era fomentare l’insurrezione per agire in funzione di guerriglia contro i reparti borbonici che nel reggino stavano prendendo posizione, bisogna anche annoverare il giovanissimo Sebastiano Nicolò di Mosorrofa che, a soli 17 anni, aveva deciso di lanciarsi in questa pericolosa impresa dagli esiti quanto mai incerti.
Non sappiamo se lo avesse fatto per spirito patriottico o per amore dell’avventura. Forse, semplicemente, per migliorare le sue misere condizioni di vita.
Egli, sicuramente, come altri contadini meridionali, si era illuso che Garibaldi, come un angelo liberatore, avrebbe vendicato gli antichi soprusi, venendo nel Sud per affrancare i poveri dagli sfruttatori.
Per quelli come Bastiano i Ciccia, così era chiamato in paese, libertà significava soprattutto liberazione dai padroni e più equa distribuzione della terra.
La sua partenza causò però non pochi problemi poiché la madre, Francesca Sottilotta, rimasta vedova troppo presto del marito Paolo e con altri sette figli minori da crescere, faceva non poca fatica a mandare avanti la famiglia, con la misera casa che cadeva ormai a pezzi. Fosse stato per lei, quel figlio ribelle, invece della baionetta, avrebbe dovuto imbracciare la zappa per lavorare nei campi, lottando contro la natura ostile piuttosto che contro il cattolicissimo re Borbone. Ma si sa, i giovani, in tutte le epoche, sono sempre stati esuberanti lasciandosi travolgere facilmente dalle passioni!
Ormai esasperata e senza notizie del primogenito, le cui braccia erano indispensabili per il sostentamento familiare, durante l’ottobre del 1860 decise di scrivere un’accorata lettera proprio ad Antonino Plutino che, nel frattempo era stano nominato da Garibaldi, Governatore Generale della Provincia di Reggio con poteri illimitati:
“Signore
La supplicante Francesca Sottilotta di Mosorrofa Comune di Cataforio vedova e madre di sette figli minori, espone alla S.V che avendo tra i tanti figli piccini un solo per nome Sebastiano Nicolò che poteva esser di aiuto alla povera famiglia questo si volle arruolare fra i volontari d’Aspromonte per servire la Patria, ora la madre inconsolabile è impossibilitata a mantenere questa famiglia da sé sola. Prega la V.S volersi benignare dargli una qualche cosa a titolo di elemosina, onde poter se non altro ristorare il suo tugurio che per il cattivo tempo cade la copertura ed è rimasta la infelice con la famiglia senza tetto.
Ciò lo spera come dalla Divina Provvidenza”.
Il Governatore Plutino, dopo le suppliche della donna, chiese subito informazioni a riguardo al sindaco di Cataforio, Andrea Bova.
Il 28 ottobre del 1860, l’Amministrazione Comunale confermava che “l’esposto della vedova Francesca Sottilotta di Mosorrofa, era veritiero ed “atteso la critica posizione della sua famiglia” che rasentava l’indigenza, ella meritava sicuramente qualche sussidio.
Con una missiva, datata 23 novembre, il Governatore, che non poteva essere ingrato nei confronti di una madre il cui figlio aveva deciso di arruolarsi nel battaglione da lui creato, fornendo un aiuto rilevante alle unità garibaldine, si impegnò fattivamente a fare avere un soccorso immediato alla povera vedova mediante una “conveniente somma” che sarebbe stata elargita successivamente da parte del Comune.
Che fine abbia poi fatto questo giovanissimo volontario non è dato purtroppo saperlo per mancanza di documentazione. Può darsi che abbia seguito Garibaldi sino alla battaglia finale del Volturno, quella più difficile, oppure sia rimasto col maggiore Felice Vecchi tra le balze della Calabria a stanare briganti e legittimisti fedeli alla causa borbonica.
Avrà sicuramente conosciuto Francesco Melari (antenato di Totò Melari) il medico del 1° battaglione dei Cacciatori di Aspromonte il quale, qualche anno dopo, eserciterà la sua condotta anche a Mosorrofa e ricoprirà la carica di sindaco nel vicino comune di Cataforio. Come pure avrà ascoltato qualche sermone “laico” del sacerdote Raffaele Pristipino di Onofrio (antenato dei proprietari del vecchio cinema del paese) letteralmente folgorato dalla figura del Generale, tanto che egli, indossando una fascia tricolore, dal pulpito della chiesa di Cataforio aizzò la folla, paragonando Garibaldi al redentore Gesù Cristo, subendo per tale audacia la sospensione a divinis.
Sta di fatto che questo giovane mosorrofano, col mito della camicia rossa, tornò definitivamente nell’ombra da dove era sbalzato fuori con tanto entusiasmo. Forse, senza il suo apporto e quello dei tantissimi “volontari d’Aspromonte”, chiamati con disprezzo muzzunari, termine col quale venivano designati i ragazzini che raccoglievano sulle vie i mozziconi dei sigari gettati dai fumatori, il corso della storia avrebbe preso una piega diversa.