Amori di un tempo che fu
Si avvicina con la Pasqua l’esplosione della primavera, il ritorno delle belle giornate e dei sentimenti più intensi ispirati dalla bella stagione. Un periodo che ha da sempre fatto da sfondo a versi che raccontano un amore antico e che pochi testi tramandano fino a noi. Vorrei riportare due poesie ottocentesche calabresi molto intense che parlano d’amore e di rifiuto. La vita scorreva forse ad una velocità diversa rispetto a quella odierna, non mancavano i fidanzamenti felici e nemmeno gli amori sfioriti, consumati, finiti. Da una donna abbandonata dal compagno vengono questi versi:
“Copriti, cielu ed aria, a questu cantu,
Apriti, terra, a questu gran lamentu;
Suli, non dari più splenduri tantu;
Aria fulmina focu e mina ventu:
E vui, pianeta chi taciti tantu,
Straformativi in sonu di toni e ventu.
Dov’è lu bellu ch’aiu amatu tantu?
U pirdia, nu viu e nu sentu.”
Con la forza di un canto antico questa donna invoca l’universo perché la compatisca, con parole che ci trasmettono una sorta di autentico romanticismo popolare. Tra i vicoli stretti e polverosi dei nostri paesini reggini incastonati tra le montagne e il mare, la vita scorreva lenta, segnata dai ritmi della terra e dalle stagioni. Le giornate cominciavano presto, con l’odore del pane appena sfornato e il rumore dei passi dei contadini che, ancora prima che il sole scaldasse i campi, s’incamminavano verso gli uliveti e le vigne, o portavano il bestiame verso i pascoli. Era un mondo semplice, ma duro. Le famiglie vivevano del poco che offriva la terra, e ogni cosa – dalla farina alla legna, dal vino all’olio – era frutto di fatica, sudore, sacrificio e orgoglio. In questo contesto di povertà dignitosa, l’amore aveva un sapore umano, profondo e rispettoso. I giovani si scrutavano da lontano, con pudore e velato desiderio. I canti d’amore nascevano proprio così: tra un sospiro e una speranza, tra un incontro rubato alla fontana e uno sguardo durante la messa. Spesso erano i ragazzi, con la chitarra o semplicemente con la voce, a portare sotto la finestra della donna amata parole piene di sentimento, improvvisate o tramandate da generazioni, in un dialetto che raccontava meglio di ogni lingua il cuore e le radici.
“Comu nivi di ‘nvernu janca siti
Cchiù bella di lu suli di la stati:
Quandu vui pe la Chiesa vi ndi iti
La ggenti fannu largu e cui passati:
Quandu la manu a lu fonti mentiti
China di rosi e hhiuri la cacciati:
Beata chidda mamma chi vi fici!
Cchiù beautu sugn’eu si vui m’amati”
Sembra quasi rileggere le caratteristiche descrittive di quella donna angelo che i padri della nostra lingua italiana lodavano. Del testo non conosciamo il nome dell’autore ma forse poco importa, sappiamo che ebbe larga diffusione, ed infatti lo ritroviamo non solo in Calabria ma anche in Sicilia. Descrizioni simili tornano spesso nei versi amorosi della gente comune che esprimeva in una poesia tutt’altro che semplice i propri sentimenti. Il ragazzo vede l’amata in uno dei pochi “legalizzati” momenti in cui ragazzi e ragazze potevano scambiarsi reciprocamente qualche sguardo, qualche parola, spesso in chiesa o sulla piazza del paese. Questi pochi versi ne richiamo molti altri ancora conservati nelle nostre biblioteche. Sono il simbolo e ricordano il suono di un amore giovane e puro, figlio della Calabria contadina, dove anche la miseria riusciva a farsi poesia.